Inghiotti nella gola
l’urlo dell’anima e il suo dolore,
lo ovatti con qualche sostanza,
lo chiudi insieme a te in una stanza,
angoscia dell’esistenza.

Lo senti ancora e ancora che ti graffia il cuore,
lo senti, madido di sudore,
e lo sai che se lui non muore
tu non vivi.

E allora scrivi,
per capirlo,
per sentirlo più lontano,
ma lui è lì con la sua mano
e te la tende,
schifosa,
non si arrende,
e tu ti dimeni, ti dibatti senza posa
avvelenato dall’interno,
prigioniero di un inferno
che nessuno vede.

C. Baudelare

Tra le poche cose carte che conosco

un languore mi angoscia

mancanza per essere

imperativo alla vita

impegno alla serietà

volontà di potenza

sole alle mie tenebre;

mia figlia.

Mi manchi più di un respiro che non riesco a completare,

più del significato dell’esistenza.

Tiranno dell’anima

Diceva qualche personaggio:

se fossi stato bello e avessi avuto mille donne molto probabilmente non avrei studiato e non starei scrivendo.

Se la famelica voglia di sentirmi il desiderio femminile addosso non avesse regolato da sempre tutti i miei comportamenti chissà chi sarei adesso.

È stato il deserto delle passioni, l’incuria di un giardino abbandonato, uno spazio ghiacciato senza voci e senza silenzio, la dannazione eterna, un tempo che non è mai stato tempo, un urlo perpetuato attraverso le cose stanche di esistere senza un motivo- è stato tutto questo, ma anche altro, che non dico per pigrizia, a farmi essere e non essere quello che sono.

Una sete mai appagata di un’acqua che non esiste.

E mi contraddico.

Mi lascio lascivo a pensieri lubrichi di amplessi promiscui con donne bellissime e sconosciute.

E nemmeno questa è forse verità.

Forse cerco solo di razionalizzare istinti, catalogare pulsioni, iscriverle dentro confini di causa-effetto, come un matematico che cerca, disperato, la quadratura del cerchio.

Destinato al fallimento il tentativo di spiegazioni, di ragioni plausibili a questo io che dondola ciclotimico, bipolare, pazzo.

Questo io che cerca consolazione, rinsavimento, rinascita.

Lo curo con parole scritte su fogli bianchi, che non sono più fogli, ma supporti digitali e gli ricordo quanto siamo caduchi, fragili, delicati, quasi inconsistenti.

Lo accarezzo con mani che plaudono, con prosit lanciati dagli spalti al posto di pomodori.

Lo lusingo con sguardi furtivi allo specchio che cercano di rubare la giovinezza in un orgasmo dei sensi, in una risata senza prima né dopo.

Costruisco cattedrali di niente dal nulla destinate a tornare nel niente annientandosi e annullandosi.

E penso dell’inquietudine di Pessoa e a lui mi paragono: chi più inquieto? I suoi ii più millantati e gloriosi, i miei schifosi da manicomio.

Nessun odore giunge.

Un fiore rosso profumato di limone che limone non era bussava alle mie narici lasciandomi indifferente e io recitavo interesse. Io recitavo volere. Io recitavo la vita.

E forse sarebbe bastato, all’inizio solo più amore: perduto, cercato, non trovato, bestemmiato, ripiegato su se stesso l’io dolente, come chi vuole sfondare un muro a mani nude e poi presenta lividi e il muro rimane intatto, alto, maestoso, tiranno dell’anima.

Chiude legando l’ora legale.

Lega stringendo la gola e

in silenzio un male

si posa nell’anima.

E la corrode.

Si adagia come la paura

un’attesa di qualcosa che dura:

angoscia di nonsensi,

-provo a spiegare-

somme di disagi

-mi pare-

subiti

negli anni

nei giorni

per le strade

fuori dai letti,

lottati,

fiori non letti,

antologie minime

di vite mediocri.

Luci fioche

C’è puzza di piscio. Un tavolinetto di vetro con poltrone e un divanetto di vimini intrecciati di colore grigio. Tutto posto in un breve corridoio che divide due pozzi luce. Delle piante di appartamento fanno da macabro arredo come dentro ad un museo di specie vegetali rare. Da muro a muro tubature di gas o di aerazione del diametro di non so quanti pollici. Le finestre hanno le grate che ricordano la prigione e hanno scollature nere di muffa dovute alle acque piovane. Seduto , di fronte al divanetto in vimini un condizionatore con la scritta “argo”.

Sotto il condizionatore una parietaria forse tropicale.

Colleghi fumano avidamente e litigano per questioni che non capisco e non mi interessano. Il fumo mi spinge ad alzarmi. O forse i colleghi.

C’è puzza di piscio. Un tavolinetto di vetro con poltrone e un divanetto di vimini intrecciati di colore grigio. Tutto posto in un breve corridoio che divide due pozzi luce. Delle piante di appartamento fanno da macabro arredo come dentro ad un museo di specie vegetali rare. Da muro a muro tubature di gas o di aerazione del diametro di non so quanti pollici. Le finestre hanno le grate che ricordano la prigione e hanno scollature nere di muffa dovute alle acque piovane. Seduto , di fronte al divanetto in vimini un condizionatore con la scritta “argo”.

Sotto il condizionatore una parietaria forse tropicale.

Colleghi fumano avidamente e litigano per questioni che non capisco e non mi interessano. Il fumo mi spinge ad alzarmi. O forse i colleghi.

Figghia

Ti scrivu ‘sta poesia,
ca chistu sacciu fari
e forsi mancu bonu;

cu s’afira a pittari
e cu canusci u sonu…
io senza arti né parti
cercu di scriviri ‘sti carti,
picchì, pi quantu ni sintemu scarti,
ni scappa sempri un sintimentu:
o si cuntentu o si scuntentu
o ha un pintimentu
e cerchi paroli ‘ntricciati
pi grirari strati strati
‘nzoccu ti dici u cori,
asinnò si un gridi mori.

Ti scrivu ‘sta poesia
picchì di quannu nascisti, figghia mia,
avemu occhi sulu pi tia;
tu cumanni:
tu dormi e tu vigghi
e pari ca tu si a matri e nuatri semu i figghi.

Agghiorna quannu riri
e scura quannu chianci e griri,
agghiorna u cori a cu ti viri:
tu saluti ca manuzza e poi ti giri.

Iochi nica nica accuculata ca pari un puddicinu,
(tra latti acqua manciari e pannolinu)
ti susi, poi t’assetti, t’arrisetti,
satarìi comu ‘na satiredda,
t’allavanchi,
l’occhi mi inchi
e a me vita tutta,
quannu mi talìi accussì ‘ncutta ‘ncutta;
cu ‘sta vucidda e ‘sti manuzzi fini fini,
tu sula u sa comu si fa
a ghinchirimi l’occhi chini chini;
tu sula u sa,
tu, a me picciridda, e io sugnu nenti,
tu sula c’a to vucidda ‘nnucenti,
tu sula u sa,
tu, quannu mi chiami “papà”.

Si prendeva un boccone frugale:

una cacocciula a viddanedda,

si mangiava senza farsi male:

puru ca eranu favi a frittedda,

si sudava col grano il sale

e ‘si nfurnavanu vastedda.

Era una sola la morale

ma di carni mancu ‘na fedda,

si giocava in strada

si iucava ammucciaredda,

non c’era marca Prada

rinocchia scurciati di picciutteddu,

adesso “comunque vada comunque dada”

autru ca favi a vugghiuneddu.

Per essere vivo

serve

il correlativo oggettivo.